Dobbiamo gettare la spugna?
Dove, dopo i fatti elettorali dei giorni scorsi, si cercano motivazioni per andare avanti
Questa settimana è successa una cosa che ha una qualche implicazione per le questioni di cui tratta questa newsletter: nella stanza dei bottoni del paese più potente del mondo è rientrato un tizio che nega la loro esistenza. Formalmente ciò avverrà il 20 gennaio del prossimo anno, ma sulle sue conseguenze è inevitabile interrogarsi subito.
Sì, sto parlando della vittoria di Donald Trump.

Se c’era un singolo evento, nel panorama mondiale, che da solo poteva guastare quello che si sta facendo per contenere il riscaldamento globale, e condizionare il corso degli eventi per lunghissimo tempo, era esattamente questo. E si è avverato questa settimana.
Il fatto è che, al di là delle simpatie di ciascuno, la differenza tra avere o non avere un Trump alla Casa Bianca non è una questione di opinioni politiche. È qualcosa di misurabile. E l’unità di misura è quella dei nostri successi e dei nostri fallimenti sul clima: le tonnellate di CO2.
Una vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali di novembre potrebbe portare a 4 miliardi di tonnellate di emissioni aggiuntive negli Stati Uniti entro il 2030.
Questi 4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente in più entro il 2030 causerebbero danni climatici globali per un valore di oltre 900 miliardi di dollari, in base alle ultime valutazioni del governo degli Stati Uniti. Per contestualizzare, equivalgono alle emissioni annuali combinate di Unione Europea e Giappone.
In altre parole, i 4 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente in più di un secondo mandato di Trump annullerebbero tutte le emissioni evitate nel mondo negli ultimi cinque anni.
Era quello che affermava lo scorso marzo un’analisi di CarbonBrief, un sito di informazione specializzato nei temi del clima e dell’energia.
Non è soltanto, però, una questione di emissioni, ma anche di leadership, di esempio.
Gli Stati Uniti oggi sono il secondo paese per emissioni assolute di gas serra dopo la Cina e rimangono la prima economia mondiale. Hanno un’enorme influenza geopolitica, culturale, storica. Chi governa la prima economia mondiale, responsabile di una quota rilevante delle emissioni globali, non può chiamarsi fuori dagli sforzi per stabilizzare il clima del pianeta.
È quello che accadrà? E in che misura? Non lo sappiamo con certezza, l’analisi che ho riportato ci dà delle proiezioni, non delle profezie. Non è un futuro già scritto, come non lo è quello del clima, che rimane ancora aperto a diversi possibili scenari, più o meno brutti. Al momento, siamo diretti verso uno scenario intermedio, ancora piuttosto brutto: quasi 3 gradi centigradi di aumento della temperatura entro la fine del secolo.
Siamo molto lontani dall’obiettivo di fermare il riscaldamento globale a 1.5 gradi centigradi. Se prima era già molto complicato, e in buona parte compromesso, gli eventi elettorali americani hanno inferto una mazzata, forse definitiva, allo sforzo per centrare questo obiettivo.
Ma gli scienziati da anni si è sgolano per farci capire che ogni frazione di grado centigrado di aumento della temperatura conta, ha un peso per gli effetti che può determinare sul clima. Quindi, se non riusciremo a stare dentro il grado e mezzo, dobbiamo comunque fare di tutto per stabilizzare il riscaldamento globale al valore più basso possibile.
La transizione energetica, cioè l’abbandono dei combustibili fossili, non sta avvenendo al passo che sarebbe necessario. Ma sta avvenendo. È un processo ormai in atto, che neanche un Trump, per quanto sia l’equivalente di un elefante che si aggira in un negozio di oggetti di cristallo, può mandare all’aria del tutto, nemmeno negli Stati Uniti.
Le energie rinnovabili e la mobilità elettrica sono settori che hanno conosciuto un enorme slancio negli ultimi anni. Stiamo attraversando, di fatto, una nuova rivoluzione industriale. Ma questo processo ha ancora bisogno di politiche che gli sgombrino la strada. E avere un negazionista climatico al vertice degli Stati Uniti è l’ultima cosa di cui avevamo bisogno.
Per darvi un’idea del rapporto tra Trump e il cambiamento climatico: le sue posizioni a riguardo hanno oscillato da «è una truffa» a «con il riscaldamento globale ci saranno più case che potranno godere della vista sul mare» (alludendo all’innalzamento del livello degli oceani).
La prima amministrazione Trump è stata un disastro per molte politiche in cui è coinvolta la scienza, dalla pandemia all’ambiente. In quattro anni la sua amministrazione ha aggredito un centinaio di regolamentazioni ambientali, riuscendo spesso a ribaltarle, annacquarle, indebolirle. Sulle emissioni di gas serra, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, la conservazione degli ecosistemi (compresi corsi d’acqua e aree umide) e delle specie animali.
Ma, al di là delle sue conseguenze politiche ed economiche, tutto ciò solleva anche un altro tema, che riguarda chi, come il sottoscritto, si occupa di giornalismo scientifico e più in generale di comunicazione della scienza: la frustrazione.
Francamente, sì, a volte ci si chiede “perché continuiamo a fare tutto questo?”.
“Beh, è il lavoro che vi siete scelti….”, direte voi. E sì, è vero, anche se non è chiaro se siamo stati noi a sceglierlo, o viceversa. Ma lasciatemi spiegare perché sorge quella domanda, di natura esistenziale.
Un paio di anni fa riflettevo sul perché sia complicato comunicare la crisi climatica, spiegando quali fossero le ragioni. Una di queste riguarda il contesto, culturale, informativo e, inevitabilmente, anche politico.

Cercare di attirare l’attenzione della gente su un tema epocale, enorme, esso stesso esistenziale, come il cambiamento climatico non è per nulla facile e, a dirla tutta, è spesso parecchio avvilente.
Lo diventa ancora di più quando tutto sembra andare in una direzione contraria, sbagliata. Lo diventa ogni volta che constatiamo l’influenza della disinformazione e della cattiva informazione (o della non-informazione) sulle opinioni delle persone.
Se il cambiamento climatico è un problema così disastroso per tutti noi, perché decine di milioni di persone decidono di farsi governare da un negazionista? Ovviamente, il risultato delle elezioni americane è dipeso da mille altre questioni importanti, da mille altri fattori che hanno determinato la, legittima, scelta degli elettori (e non posso però tacere il ruolo che ha avuto anche la cattiva informazione su alcuni temi).
Non affronterò la questione qui, perché davvero è lontana dagli argomenti di questa newsletter. Ma chi fa questo mestiere, chi si occupa di parlare di scienza alla gente ha bisogno ogni giorno di (ri)trovare le motivazioni per farlo, perché francamente spesso sembra di svuotare l’oceano con un cucchiaino.
E allora la motivazione viene forse proprio dalla convinzione che, se il contesto, non solo climatico, ma anche informativo, politico e culturale, diventa sempre più ostile, proprio per questo c’è bisogno di ancora più informazione. Potrà sembrare banale, ma questa consapevolezza è già qualcosa.
Che fare, dunque? Faccio mio ciò che ha scritto l'economista Paul Krugman:
Non chiedete di chi è stata la colpa. Ci sarà tempo per i ripensamenti e le recriminazioni. Chiedetevi invece: cosa potete fare? Per quanto mi riguarda, questo significa dire la verità come la vedo io, finché potrò.
Dunque, no: non dobbiamo gettare la spugna.
La settimana prossima torniamo a parlare di scienza.